Cap. IV

L'algebra e le equazioni

 

L'algebra è divisa in "algebra classica" (la teoria delle equazioni) e in "algebra moderna" o "astratta" (lo studio dei gruppi, degli anelli e dei campi).
La prima nasce e si sviluppa nel mondo arabo. Erroneamente si sostiene che i babilonesi furono i primi a risolvere equazioni del secondo grado. In realtà, essi disponevano di un metodo per risolvere problemi che, con la nostra terminologia, dava luogo a equazioni quadratiche, ma erano molto lontani dal concetto di "equazione".
Colui che si può chiamare "il padre dell'algebra" è al-Khuwarizmi, matematico e astronomo vissuto nella prima metà dell'800. La sua opera più importante, al-kitab al-mukhtasar fi hisab al-jabr wa'l-muqabalah, ha fornito alle lingue moderne un termine d'uso molto popolare: algebra.

Frontespizio dell'opera al-jabr wa'l-muqabalah di al-Khuwarizmi.

Quest'opera ci è pervenuta in due versioni, una latina e una araba, ma in quella latina (Liber algebrae et almucabola), manca una parte considerevole della versione araba: manca per esempio la prefazione, che nel testo originale aveva un taglio troppo religioso. Non si sa con certezza quale sia il significato dei termini "al-jabr" e "muqabalah": il primo, presumibilmente, significava "restaurazione" o "completamento" e si riferiva alla trasposizione dei termini sottratti da un membro all'altro dell'equazione; il secondo significava "riduzione" o "equilibrio" e indicava la cancellazione dei termini simili che compaiono in entrambi i membri di una equazione.
Al-Khuwarizmi distingue e risolve sei tipi di equazioni algebriche formate da tre specie di quantità: radici, quadrati e numeri.

1. Quadrati uguali a radici i.e.
2. Quadrati uguali a numeri i.e.
3. Radici uguali a numeri i.e.
4. Quadrati e radici uguali a numeri i.e
5. Quadrati e numeri uguali a radici i.e.
6. Radici e numeri uguali a quadrati i.e.

I sei casi presentati esauriscono tutte le possibilità di equazioni lineari e del secondo grado aventi una radice positiva (la radice o a valori negativi non veniva riconosciuta).
Al-Khuwarizmi dava la regola per risolvere ogni tipo di equazione, una sorta di formula simile a quella usata oggi

per un esempio numerico per ogni caso, seguita dalla dimostrazione geometrica "di completamento del quadrato".
Ecco il metodo risolutivo per un problema del tipo:

"un quadrato e dieci radici sono uguali a 39 unità".
Il modo di risolvere questo tipo di equazione è di prendere metà delle radici (e cioè 5) e moltiplicarle per sé stesse (si ottiene 25). A questo si aggiunge 39 e si ottiene 64, la cui radice quadrata è 8. A 8 si sottrae 5 e si ottiene 3, che rappresenta una radice del quadrato.

In notazione moderna, il problema si presenta così:





E' possibile vedere la dimostrazione geometrica di questo procedimento visitando il sito L'arte dell'algebra [61] nella parte dedicata al mondo arabo.

L'Algebra di al-Khuwarizmi ebbe una grossa influenza sui matematici europei del Medioevo, grazie alla sua traduzione in latino fatta da Roberto di Chester prima e da Gerardo da Cremona poi. Chi maggiormente sentì questa influenza (forse anche per via dei frequenti viaggi in Egitto, Siria, Algeria) fu Leonardo Pisano (detto Fibonacci).
Negli ultimi capitoli della sua opera, Liber abaci (1202), egli espone, non in modo originale, ma presentando delle innovazioni in alcune soluzioni, la solita classificazione araba delle equazioni (quadrati uguali a radici, quadrati uguali a numeri, radici uguali a numeri, quadrati e radici uguali a numeri, quadrati e numeri uguali a radici, radici e numeri uguali a quadrati), seguita da esempi specifici risolti algebricamente e dimostrati geometricamente.

Una nuova fase della matematica incomincia in Italia attorno al 1500. Infatti, nel 1494, appare la prima edizione di Summa de arithmetica, geometria, proportioni e proportionalità del frate Luca Pacioli.
La Summa fu più influente che originale. E' una grandiosa compilazione, scritta in volgare, di materiali appartenenti a quattro campi diversi della matematica: aritmetica, algebra, geometria euclidea molto elementare e registrazione a partita doppia.
La sezione sull'algebra comprende la soluzione canonica delle equazioni di primo e di secondo grado. Sebbene sia priva della notazione esponenziale, presenta un largo uso di forme abbreviate proprie dell'algebra sincopata. Le lettere p e m erano già in uso come abbreviazioni di somma e sottrazione e Pacioli introdusse l'uso di R per radice, co per cosa (incognita), ce per censo (il quadrato dell'incognita) e ae per aequalis. Per indicare la quarta potenza dell'incognita usava cece.

Consideriamo la seguente sequenza:

In notazione moderna diventa:

Pacioli credeva che le equazioni di terzo grado non potessero essere risolte algebricamente, mentre le equazioni di quarto grado del tipo potevano essere risolte attraverso metodi quadratici.

Oltre ai cambiamenti che la Summa ha apportato nel campo delle notazioni, questa opera ha anche stimolato, direttamente o indirettamente, la ricerca delle soluzioni delle equazioni cubiche.

Nel 1545 la soluzione dell'equazione di terzo e quarto grado diventò di dominio pubblico con l'uscita dell'Ars magna di Girolamo Cardano. (Per ulteriori informazioni su Cardano come matematico ma soprattutto come uomo, si visiti il sito Gerolamo Cardano: il matematico libertino [62].)

Frontespizio dell'opera di Cardano Ars magna.

Egli, però, non ne fu lo scopritore, come ammette nel suo libro: l'idea della soluzione dell'equazione di terzo grado l'aveva avuta da Nicolò Tartaglia e la soluzione dell'equazione di quarto grado era stata trovata da Ludovico Ferrari. Ciò che Cardano non menzionò era la promessa fatta a Tartaglia di non divulgare il segreto, poiché quest'ultimo intendeva farsi un nome con la pubblicazione della soluzione delle equazioni di terzo grado a coronamento del suo trattato di algebra. Nacque quindi una intricata controversia tra i sostenitori dell'uno e dell'altro. Va comunque detto che neppure Tartaglia fu il primo a fare la scoperta. Infatti, un professore di matematica a Bologna, Scipione del Ferro, prima di morire aveva rivelato ad un suo studente, Antonio Maria Fiore, la soluzione.
Sembra che fosse circolata la voce dell'esistenza di una soluzione algebrica dell'equazione di terzo grado, e Tartaglia ci dice che la conoscenza della possibilità di risolvere l'equazione lo stimolò a trovare da sé il metodo per ottenerla e così fece. Quando si diffuse la notizia di tale scoperta, fu organizzata una gara matematica tra Fiore e Tartaglia. Ciascuno dei contendenti proponeva all'altro trenta problemi da risolvere in un tempo stabilito. Tartaglia risolse tutte le questioni proposte da Fiore, mentre quest'ultimo non ne risolse neppure una. Questo perché, a quei tempi, quando i coefficienti negativi non venivano mai usati, vi erano altrettanti tipi di equazioni del terzo grado quante erano le possibilità che i segni dei coefficienti fossero positivi o negativi. Fiore era in grado di risolvere solo equazioni in cui cubi e radici erano uguali a un numero, del tipo . Tartaglia, invece, aveva imparato a risolvere anche equazioni in cui cubi e quadrati sono uguali a un numero.

L'Ars magna non offre oggi una lettura molto eccitante: tutti i casi delle equazioni di terzo grado vengono laboriosamente discussi uno dopo l'altro in tutti i loro dettagli a seconda che i termini dei vari gradi compaiano nello stesso membro o in membri opposti dell'equazione. Nonostante Cardano trattasse di equazioni numeriche, seguiva l'esempio di al-Khuwarizmi nel concepirle geometricamente: poiché veniva concepito come un volume, anche doveva venire concepito come un volume, per cui 6 doveva avere le dimensioni di un'area. Le considerazioni geometriche, però, creavano dei problemi nella trattazione dei numeri negativi: era inconcepibile pensare che una linea, o un quadrato, o un cubo, avessero,rispettivamente, lunghezza, o area, o volume, negativi; inoltre era impensabile poter sottrarre una quantità più grande da una più piccola.

Esempio: "sia un cubo e 6 volte il suo lato uguale a 20", che in linguaggio simbolico si esprime .

Poniamo . Allora l'equazione di partenza diventa:

Dobbiamo determinare u e v tali che

Bisogna quindi individuare e di cui è nota la somma e il prodotto. Ci si riconduce allora ad una equazione del tipo , risolta da

Dopo aver sviluppato il suo metodo, Cardano termina con una formulazione verbale della regola che porta alla soluzione: in simboli è espressa

.

 Per vedere la trattazione geometrica di questo metodo risolutivo è utile accedere al sito L'arte dell'algebra [61] nella sezione dedicata all'Ars magna di G Cardano.

Nel trattare equazione del tipo "un cubo uguale a una cosa e a un numero", Cardano incontrò qualche difficoltà. Se infatti applicava la sua regola all'equazione , il risultato era .
Cardano sapeva che non esisteva nessuna radice quadrata di un numero negativo, ma sapeva anche che era una radice dell'equazione: non capiva quindi come potesse avere senso la sua formula in questo caso. Non poteva far altro che concludere che il suo risultato era "tanto sottile quanto inutile". Va comunque riconosciuto a Cardano il merito di avere almeno presentato attenzione a questa situazione.

Vediamo ora, attraverso un esempio, come Cardano risolveva le equazioni di quarto grado.

Esempio:

  1. Si aggiunge a entrambi i membri dell'equazione quadrati e numeri sufficienti a rendere il membro sinistro uguale a un quadrato perfetto:
    , cioè
    .
  2. Si aggiunge a entrambi i membri dell'equazione termini comportanti una nuova incognita y in modo che il membro a sinistra rimanga un quadrato perfetto: .
  3. Si sceglie la y in modo tale che il trinomio del membro a destra sia un quadrato perfetto (si pone uguale a zero il discriminante):
    .
  4. Si ottiene una equazione del terzo grado nella y, , che può essere risolta con la regola precedentemente data. La soluzione è
    .
  5. Si sostituisce con il valore trovato la y nel secondo passaggio e si estrae la radice quadrata.
  6. Si ricava una equazione del secondo grado nella x, che deve essere risolta.

Al tempo di Cardano i numeri irrazionali venivano ormai ammessi; i numeri negativi sollevavano maggiori difficoltà. Fin quando si erano studiate solo equazioni di secondo grado, gli algebristi avevano potuto evitare i numeri immaginari semplicemente dicendo che un'equazione del tipo non era risolvibile. Con l'introduzione delle equazioni di terzo grado, però, la situazione cambiò: ogniqualvolta le tre radici dell'equazione erano reali e diverse da zero, la formula di risoluzione portava a radici quadrate di numeri negativi. E' in questo ambito che entra in scena un altro algebrista italiano, Raffaele Bombelli.

Frontespizio di Algebra di Bombelli.

Nella sua opera, Algebra, stampata nel 1572, osservava che i due radicandi delle radici cubiche risultanti dalla solita formula differivano solo per un segno. Abbiamo visto che la soluzione di porta a , mentre si sa che, per sostituzione diretta, è l'unica radice positiva dell'equazione. Bombelli ebbe l'idea che i radicali potessero essere messi in relazione tra loro nello stesso modo in cui erano correlati tra loro i radicandi (oggi si parla di numeri complessi coniugati). La sua osservazione, a quel tempo, non fu di nessun aiuto nel lavoro di soluzione delle equazioni del terzo grado, ma ebbe il merito di portare alla luce il concetto di numero complesso. Fra le molte notazioni introdotte da Bombelli, infatti, vi è l'uso dei simboli +i (più di meno) e -i (meno di meno).

La conseguenza più importante di questo periodo dedicato alla scoperta delle soluzioni delle equazioni di terzo e quarto grado fu il potente stimolo che diede alle ricerche algebriche in diverse direzioni. Naturalmente lo studio delle equazioni venne generalizzato fino ad includere equazioni polinomiali di qualsiasi ordine, e in particolare si tentò di trovare una soluzione per le equazioni di quinto grado. I matematici dei due secoli successivi si trovarono di fronte ad un problema algebrico insolubile: il risultato di tutti questi sforzi fu molta buona matematica, ma negativo per quanto riguarda la possibilità di una soluzione del genere.

Nella seconda metà del XVIII secolo lo studio delle equazioni si orienta in una nuova direzione: non più la sfrenata ricerca di una formula di risoluzione, bensì la ricerca dell'esistenza della soluzione. All'opera di grandi matematici, tra i quali L. Euler, J. d'Alembert, Lagrange, S. Laplace, si deve l'impostazione e i primi tentativi di dimostrazione del cosiddetto teorema fondamentale dell'algebra [63]. Questo teorema, che può essere formulato in diversi modi equivalenti, afferma che

ogni equazione algebrica di grado n a coefficienti complessi possiede n radici complesse.

Il primo tentativo serio di dimostrare il teorema fondamentale dell'algebra fu fatto nel 1746 da d'Alembert. Per una equazione polinomia f(x)=0, prendeva dei numeri reali b e c tali che f(b)=c. Mostrava poi che esistevano dei numeri complessi z' e w' tali che |z'|<|c| e |w'|<|c| e iterava il procedimento di convergenza a zero di f.
Primo, usava un lemma non dimostrato (sarà dimostrato nel 1851 da Puiseau utilizzando il teorema fondamentale dell'algebra); secondo, non aveva le necessarie conoscenze per usare argomenti di compattezza per ottenere la convergenza finale. In ogni modo, le idee nella sua dimostrazione sono importanti.
Euler fu presto capace di provare che ogni polinomio reale di grado n (con n6) ha esattamente n radici complesse. Nel 1749 tentò una dimostrazione del caso generale, quindi cercò di dimostrare il teorema fondamentale dell'algebra per polinomi reali:

ogni polinomio di grado n con coefficienti reali ha precisamente n radice in C.

La dimostrazione presentata in Recherches sur les racines imaginaires des équations si basava sulla decomposizione di un polinomio monico di grado nel prodotto di due polinomi monici di grado . Siccome un polinomio arbitrario può essere convertito in un polinomio monico moltiplicandolo per per qualche k, il teorema seguiva iterando la decomposizione. Euler sapeva che si poteva applicare un trasformazione per rimuovere il termine del polinomio col secondo grado più grande (cioè di grado n-1). Quindi assumeva che

poi moltiplicava e comparava i coefficienti. Faceva questo in dettaglio per il caso n = 4, ma il caso generale era solo abbozzato.
Nel 1772 Lagrange sollevò delle obiezioni sulla dimostrazione di Euler. Obiettava che le funzioni razionali di Euler potevano portare a 0/0. Usava le sue conoscenze sulle permutazioni di radici per riempire le lacune della dimostrazione di Euler eccetto che assumeva che le equazioni polinomiali di grado n dovevano avere n radici di un qualche tipo, così che poteva operare con queste e dedurre delle proprietà.
Laplace, nel 1795, cercò di provare il teorema fondamentale dell'algebra usando un approccio completamente diverso, cioè usando il discriminante del polinomio. La sua dimostrazione era molto elegante, ma il problema consisteva nell'assumere l'esistenza della radice.
La prima dimostrazione rigorosa è dovuta a Gauss. Nella dissertazione di dottorato del 1799, Gauss elencava le obiezioni alle altre dimostrazioni e dimostrava che ogni equazione polinomia f(x)=0 ha almeno una radice, sia che i coefficienti siano reali o immaginari. Riportiamo qui non i dettagli della dimostrazione ma le linee generali del suo pensiero.

Risolviamo graficamente l'equazione , mostrando che esiste un valore complesso di z = a + bi che soddisfa l'equazione. Sostituendo z con a + bi e separando la parte reale da quella immaginaria dell'equazione, otteniamo e ab - 2 = 0. Interpretando a e b come quantità variabili e rappresentando graficamente queste equazioni sul medesimo insieme di assi, uno per la parte reale a, l'altro per la parte immaginaria b, otteniamo due curve: una è formata dalle rette a + b = 0 e a - b = 0, l'altra dall'iperbole equilatera ab = +2. Risulta chiaro che le due curve hanno un punto di intersezione P nel primo quadrante (e uno P' nel terzo quadrante). Si noti in particolare che un ramo della prima curva si allontana dall'origine nelle direzioni e , e che un ramo della seconda curva si avvicina asintoticamente alle direzioni e ; il punto di intersezione si trova tra le ultime due direzioni, e . Le coordinate a e b di questo punto di intersezione sono le parti reale e immaginaria del numero complesso che rappresenta una soluzione dell'equazione . Se la nostra equazione polinomiale di partenza fosse stata di terzo grado avremmo avuto una curva con un ramo che si avvicinava alle direzioni e e l'altra curva si sarebbe avvicinata alle direzioni e . I rami sono continui in entrambi i casi; pertanto devono intersecarsi in qualche punto compreso nell'intervallo fra e . Per un'equazione di grado n, vi saranno due curve tali che un ramo dell'una avrà le direzioni asintotiche e , mentre un ramo dell'altra avrà le direzioni asintotiche e ; questi rami si intersecheranno necessariamente nell'intervallo compreso fra e , e le coordinate a e b del punto di intersezione saranno le parti reale e immaginaria del numero complesso che soddisfa l'equazione. Risulta pertanto evidente che, qualunque sia il grado di una equazione polinomiale, questa avrà necessariamente una radice complessa. Pertanto da questo risultato possiamo dimostrare la tesi di Gauss che ogni polinomio di una variabile può venire scomposto nel prodotto di fattori reali di primo e secondo grado.

La dimostrazione del teorema fondamentale dell'algebra presentata da Gauss era basata in parte su considerazioni geometriche. Parecchi anni più tardi, nel 1816, Gauss ne pubblicò due nuove dimostrazioni, e un'altra ancora nel 1850, cercando di dimostrarlo con metodi puramente algebrici.

Nella prima metà del XIX secolo viene affrontato e risolto un altro grande problema dell'algebra classica: quello della risolubilità o meno di un'equazione algebrica mediante radicali, cioè di esprimerne le soluzioni operando sui coefficienti dell'equazione con operazioni razionali ed estrazioni di radice di vario indice. L'italiano P. Ruffini e il norvegese N. E. Abel dimostrarono, indipendentemente, che l'equazione generale di quinto grado non è risolubile mediante operazioni del tipo indicato. Ma è al francese E. Galois che si deve il risultato più generale:

un'equazione è risolubile mediante operazioni razionali ed estrazioni di radice quando e soltanto quando il gruppo di Galois ad essa associato è risolubile.

In caso contrario, per ottenere la determinazione numerica delle radici, è necessario ricorrere a procedimenti di approssimazione che esulano dal dominio proprio dell'algebra.

Ulteriori sviluppi l'algebra classica ha ricevuto dallo studio dei polinomi e delle equazioni algebriche in due o più variabili. In particolare la ricerca delle condizioni di compatibilità di un sistema di un sistema di due equazioni algebriche, o più in generale per la risolubilità di un sistema di un numero qualunque di equazioni algebriche in un numero qualunque di incognite, ha promosso rispettivamente la costruzione della teoria del risultante (J. J. Sylvester, A. Cayley) e della teoria della eliminazione (L. Kronecker, E. Bezout). Con alcune delle teorie accennate, come la teoria di Galois, e più tardi con la teoria generale delle forme algebriche in due o più variabili e dei relativi invarianti, sviluppata da Cayley e Sylvester, cominciano a configurarsi alcuni degli strumenti caratteristici dell'algebra moderna, attraverso la considerazione di nuovi tipi di insiemi con operazioni (nei quali cioè sono definite una o più leggi di composizione tra elementi, come per esempio i gruppi [64]), studiati dapprima in concreto e separatamente (C. Jordan, O. Holder, J. W. R. Dedekind, G. F. Frobenius, ecc.)e poi da un punto di vista sempre più generale e assiomatico. Si arriva così agli inizi dell'algebra moderna.